I Setacci / Specchio

11 novembre 2004

Colpisce nell’opera di Ievolella la capacità di coniugare la geometria con la vita. Si tratta solo apparentemente di una questione di stile, perché conciliare l’ordine della logica e il disordine della storia non è solo un problema formale. In ogni caso è riuscito a pochi. Certo, è riuscito ai poeti come Gadda, che parla delle ”ellissi del nostro disperato dolore”, riunendo magistralmente fisica e psicologia. Invece per molti artisti, anche grandi, geometria ed esistenza sono rimasti distinti, estranei. E’noto che Mondrian, uno dei massimi interpreti dell’ortogonalità nell’arte moderna, odiava la luce naturale, dipingeva solo con la luce elettrica e nel suo studio, che si trovava in mezzo a interi campi di tulipani, teneva un unico fiore: di plastica. Tutto ciò che era natura,e dunque vita, veniva tenuto accuratamente fuori dal suo atelier e dalla sua arte. Nelle opere di Ievolella succede il contrario. L’impianto geometrico, è vero, sostiene e governa ogni composizione. Quadrati, rettangoli, linee, cerchi compaiono nelle sue opere, anzi sovraintendono alla loro fisionomia. Non c’è singolo soggetto o elemento dell’ installazione in cui non si avverta la presenza della geometria. Tuttavia questa presenza si incarna in un mondo di simulacri, o di oggetti d’uso, in una famiglia di elementi insomma, che portano con sé la memoria di una consuetudine quotidiana. La memoria della vita, appunto.

Il sentore, la fragranza, ma anche la provvvisorietà e la deperibilità dell’esistenza si colgono in primo luogo in una voluta approssimazione. Ievolella non agisce da geometra, da progettista, da ingegnere. Muove da forme che si trovano intorno a noi e le tramuta in elementi artistici. Nelle sue opere agisce poi, prepotentemente, la realtà della materia, con le sue impurità, i suoi residui, il suo diretto agganciarsi alla concretezza. La geometria delle sculture di Ievolella infatti non rimanda, come nella grande stagione del razionalismo e del concretismo europeo della prima metà del secolo, a una filosofia platonica, iperuranica. Non allude a un eidos perfetto che sta oltre le cose e a un certo punto entrerà nel flusso dell’esistenza. Al contrario, siamo di fronte a una ricerca che sente fortemente (aristotelicamente, verrebbe da dire: e in fondo, per un artista che lavora a Padova, cioè nella città in cui ha avuto sede una delle scuole di pensiero più fedeli allo Stagirita, l’aggettivo ci può anche stare) il valore di vita vissuta di ciò che ci circonda. Nelle forme scolpite da Ievolella si sente l’usura del tempo, il passare dei minuti, delle ore, delle stagioni che si deposita sulla pelle delle cose, le modifica e le corrode. Ecco, su una mensola in precario equilibrio un vaso lungamente toccato e una coperta militare che si stagliano contro una parete di metallo. Ecco un tavolo preparato per commensali misteriosi, che non conosceremo mai. Ecco, ancora, un altro tavolo, insieme liso e prezioso, materiale d’oreficeria e di scarto, che suscita lo stesso sentimento di attesa dei mobili nella valle dechirichiani. Ecco, infine, una selva di linee e un folto d’erbe metalliche impenetrabili. Nelle alchimie di Ievolella si ricrea un mondo di residui, di utensili disabili, di tracce e orme di un altrove che stentiamo a riconoscere. Forse sono oggetti di una vita precedente, ricordi di qualche sogno che si è materializzato inaspettatamente davanti a noi.

Se si dovessero datare queste opere, prescindendo dalle considerazioni stilistiche, e dalla coerenza che lega le varie fasi della ricerca dell’artista, saremmo in difficoltà nell’ascriverle a una data precisa. Perché, più che da un tempo cronologico sono segnate dalla patina del tempo: quella che secondo Rilke costituisce il colore più bello che può avere una scultura.